ORIGINI ovvero GITA AL SEMAFORO DI CAPRAIA
Isola di Capraia, vetta del Monte Arpagna, "semaforo", settembre 1983. Minolta SRT 100, ob. Minolta MD 50mm f2,0. Fuji 50. Scanner Nikon Coolscan 5ED.
In un settembre di molti anni fa, visitando Capraia, una delle isole più selvagge dell’Arcipelago Toscano, incontrai un falco. Stava posato in un luogo bellissimo, su una roccia appuntita circondata di macchia, da qualche parte lungo le pendici del Monte Arpagna. Infastidito dal mio arrivo s’involò lanciando grida acutissime. Avevo con me una reflex e un 50mm, cercai d’inquadrarlo e scattai.
Credo che questo lontano episodio sia all’origine del mio lungo viaggio nella natura insieme a una macchina fotografica, il primo evento di una serie che continua tuttora e che, sebbene tra alti e bassi , non si è mai veramente interrotta.
Di che falco si trattava? La curiosità mi venne subito, ma la pellicola che sviluppai non fu in grado di soddisfarla: il fotogramma mostrava poco più di un puntolino scuro contro il cielo, mosso e sfuocato. Ancora non sapevo che di quei puntolini ne avrei collezionati per diversi anni. Restavano però le nitide immagini che si erano impresse nel mio cervello. Gli occhi infatti, per fortuna, avevano lavorato molto meglio della mia, allora nuovissima, oggi storica, Minolta SRT 100. Così, conservando nella mente il perfetto ricordo del falco (avevo ancora un apparato visivo ben funzionante), qualche tempo dopo entrai in una libreria ben fornita (ancora esistevano librerie ben fornite in cui entrare), comprai una copia del mitico Bruun-Singer-Campbell sugli uccelli europei e, sfogliando il volume con attenzione, scoprii che a Capraia avevo incontrato il falco pellegrino.
Soddisfatta la curiosità cercai di analizzare l’episodio. Cosa rappresentava? Cosa mi aveva spinto prima in cima a Monte Arpagna e poi in quella libreria?
Innanzitutto certamente la forte attrazione per la natura, per i luoghi incontaminati e per gli animali selvaggi, in particolare gli uccelli, ma, insieme a questa istintiva, sentimentale passione per la bellezza del mondo, anche l’intenso desiderio di sapere e capire. Avevo preso coscienza, insomma, che volevo mettere gli occhi, la mente e il cuore sulla stessa linea di mira. C’era sì in me l’attrazione emotiva per la natura, ma c’era anche da soddisfare il desiderio d’imparare, di alimentare la consapevolezza, anche nella sua scientifica accezione. Ed era sorprendente che in questo semplice ragionamento, che avevo innescato dopo la mia passeggiata capraiese, fosse contenuto, sebbene allora ancora non lo sapessi, il nucleo essenziale del pensiero di uno dei più grandi fotografi che il pianeta abbia mai conosciuto: Henri Cartier-Bresson. Solo qualche anno più tardi, leggendo le sue riflessioni sulla fotografia come azione immediata, volta alla cattura di quella precisa frazione di tempo che è parte della realtà, meditando sulla sua filosofia del saper cogliere l’attimo e soprattutto del saper imparare ad attenderlo, ho capito che Cartier-Bresson dovrebbe essere considerato il vero nume tutelare della fotografia naturalistica.
Va detto poi che non fui per nulla scoraggiato dall’insuccesso fotografico col falco pellegrino ma che capii piuttosto che una macchina fotografica in assenza di consapevolezze è uno strumento fallace, che il fotografo, ma potrei dire l’essere umano, senza studio e cultura, sarà sempre un soggetto incompiuto e potenzialmente pericoloso.
Le più semplici domande che occorreva farsi mi apparvero subito chiare: perché avevo incontrato il falco proprio in quel punto, in quel giorno, in quell’ora? Perché frequentava quell’ambiente naturale? Quali erano gli altri esseri viventi presenti in quel luogo? E perché proprio quelli? Come mai, nonostante la distanza che ci separava, era fuggito gridando? Avevo disturbato qualche suo progetto o attività?
La serie dei quesiti era ricca e una domanda stimolava l’altra, ancora prima che riuscissi a darmi qualche risposta. Mi ci appassionai subito, non ho più smesso.