IL PAESAGGIO MINIMO
Dolomiti.
La sponda, Dolomiti. Canon EOS5D, ob. Canon 70-200mm f2.8.
23 ottobre 2017, 12.15.08, ISO 500, lunghezza focale 125mm, priorità dei diaframmi, AV f18.0, TV 1/125, misurazione valutativa, one-shot AF.

Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.
Jorge Luis Borges


Sembra che il Paesaggio con un ponte di Albrecht Altdorfer, datato 1518, sia il più antico esempio di paesaggio, inteso come soggetto indipendente, in pittura. Incuriosito sono andato a guardarlo ma non ho trovato quel che mi aspettavo. Non si tratta infatti di una “veduta”, di un’immagine che si associ bene a ciò che la nostra mente è abituata a intendere come paesaggio; è invece un insieme di elementi eterogenei, sia naturali che antropici, racchiusi in un campo alquanto stretto: rocce, alberi, cespugli, un torrione a cui si accosta uno strano ponte incompiuto, si stringono, in modo un po’ forzato, dentro a un taglio verticale il cui centro d’attrazione visiva finisce per essere il piccolo lembo di prato fiorito in primo piano. A nulla valgono picchi di montagne e campanili in lontananza, l’occhio, almeno il mio, va sempre a cadere su quel prato in basso, su quella piccola superficie insignificante. Forse è l’intimità del luogo, l’atmosfera sospesa che si sente ai piedi di quelle rocce nude, fatto sta che tutti gli altri elementi non riescono in alcun modo ad attirare il mio sguardo. Dunque è possibile che dentro al primo paesaggio della storia si trovi già traccia di ciò che io oggi chiamo “paesaggio minimo”? Direi di sì e in fondo neanche me ne meraviglio troppo, ma visto che ho scoperto Altdorfer, non posso certo fermarmi a questo. Dunque, cercando sul web altri lavori dell’artista, scopro un piccolo olio su tavola del 1510, intitolato San Giorgio nella foresta, un lavoro magnifico, di straordinaria modernità, un dipinto in cui nove decimi della superficie sono ricoperti da quella che, in fotografia, noi oggi chiameremmo una texture! San Giorgio si distingue giusto perché il suo cavallo è bianco, il drago, una specie di grosso rospo alato e vagamente disneyano, si confonde ai suoi piedi spaurito e dunque già presago della sua pessima sorte ma, tutto il resto della tavola è fittamente riempito dal minuto e intricato disegno delle fronde degli alberi, solo una piccola apertura nel verde lascia intravedere un lembo di colline: un altro paesaggio minimo.
Devo dedurne che non solo Altdorfer ha dipinto il primo paesaggio della storia dell’arte, egli ha pure inventato il paesaggio minimo! E io, esattamente cinquecento anni dopo, con la mia macchina fotografica, provo a imitarlo, ma soprattutto cerco di dare a quel tipo d’immagine una definizione più precisa, di stabilire una sorta di statuto, che mi renda più consapevole di ciò che fotografo.
Paesaggio: porzione di territorio considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo, per lo più con un senso affettivo cui può più o meno associarsi anche un'esigenza di ordine artistico ed estetico. Così recita il dizionario, ma è noto come il paesaggio possa avere numerose e diverse accezioni: esso contribuisce al benessere individuale e sociale, può essere creato dall’azione cosciente degli uomini e dunque, assumendo la valenza di carattere identitario, è anche un concetto giuridico. Già, ci sono i paesaggi delle bellezze storiche e di quelle naturali, ma anche le civiltà paesaggistiche, i paesaggi scientifici, quelli letterari e perfino quelli interiori.

ALBRECHT ALTDORFER, Paesaggio con un ponte.
ALBRECHT ALTDORFER, San Giorgio nella foresta.

 
Foreste Casentinesi, Toscana.
Foglie galleggianti, Toscana. Canon EOS 5D MkIII, ob. Canon 16-35mm f4.0.
29 ottobre 2021, 12.15.02, ISO 800, lunghezza focale 35mm, priorità dei diaframmi, AV f8, TV 1/40, misurazione media ponderata, one-shot AF.

Ma noi che amiamo scattare fotografie nella natura quali paesaggi inseguiamo? Ci penso da parecchio tempo e soprattutto da quando, a causa di qualche malanno articolare, fotografare gli animali selvatici mi è diventato più difficoltoso. Dunque rivolgersi al paesaggio è stato fisiologico, naturale, un vero piacere, un'attrazione fatale.
Qualche tempo fa, invitato da un club fotografico, ho proiettato alcuni dei miei lavori e qualcuno, dalla platea, mi ha chiesto perché per il paesaggio usassi “sempre” il teleobiettivo; era un osservatore attento perché in effetti molte (ma non tutte) delle mie immagini migliori sono scattate con piccoli e medi tele. Ho risposto, in modo un po’ elusivo, che questo è una specie d’istinto, che i tagli più stretti mi vengono naturali, che soddisfano meglio il mio senso estetico.
In seguito però, riflettendoci in privato, non ho potuto certo accontentarmi di dare ai miei paesaggi minimi un significato solo dimensionale. Così ho cercato di focalizzare con più attenzione cosa intendo veramente per paesaggio minimo. Certo le dimensioni c'entrano, diminuire l'angolo di campo è quasi sempre il primo passo, perché così facendo ci si avvicina ai luoghi, si esplorano con maggior attenzione e si riescono a cogliere i particolari, le parti più piccole che altrimenti, confuse nell'insieme, potrebbero sfuggirci; a volte però questa penetrazione visiva all'interno del paesaggio ci fa scoprire che la grandezza si replica nel piccolo, che dentro al taglio di un duecento millimetri si celano ancora innumerevoli oggetti e luci, che ricreano la complessità di una veduta più ampia. Dunque sono proprio questi i paesaggi minimi: immagini di taglio ristretto all'interno delle quali è presente la ricchezza di elementi di un vero paesaggio, di un'ampia veduta; immagini nelle quali ridurre l'angolo di campo non produce una reale semplificazione.
Altre volte invece, è proprio la semplificazione che cerchiamo. La semplificazione, in fotografia, spesso funziona bene, lo abbiamo imparato “da piccoli” insieme ai rudimenti, insieme al concetto di tempi e diaframmi. Dunque capita che il paesaggio minimo sia minimo davvero, perché gli elementi compositivi sono pochi e lineari, oppure perché sono solo la luce e il colore a fare la storia, a prendersi la responsabilità di narrare; in questi casi a volte sono protagoniste le ombre, oppure esploriamo luoghi monocromi, come quando il mondo è levigato dalla neve o dove si stende la granulosità della sabbia, entrambe eccellenti protagoniste di questo tipo d'immagini. Ancora, posso giocare con una texture, rendendo omaggio ad Altdorfer, oppure riesco a far parlare il riflesso di una pozzanghera, l'acqua, nella mia esperienza, va molto d'accordo con le semplificazioni. Ecco che, miscelando questi elementi in modo adeguato, con fantasia ma anche con il giusto raziocinio, scopro che la gamma dei paesaggi minimi è davvero infinita.

Dunque, in piena consapevolezza, vado un po' controcorrente, perché rifuggo dai roboanti paesaggi grandangolari tanto in voga di questi tempi, composti e colorati tutti nello stesso modo e spesso costruiti applicando a luoghi ormai fatti diventare iconici dal turismo fotografico, filtri ed esposizioni multiple che creano una molesta sensazione di artificiosità, quella sperimentata da chi guarda cento immagini diverse e subito capisce di averne vista solo una, sempre la stessa, in una sorta di noiosa variazione sul tema. Sì, essendo un fotografo della natura, da quel mondo “alla moda” prendo le distanze e provo a esplorare, seppure con successi limitati, una mia via personale; cercando solo immagini naturali, in cui sia la ricerca compositiva a giocare il ruolo primario, a menare la danza, improntando l'intero processo della creazione fotografica.

Bene, questa è la tecnica, ma qual è la poetica dei miei paesaggi minimi? Ripenso alla definizione del dizionario ed estraggo alcune parole chiave: porzione di territorio considerata (...) per lo più con un senso affettivo... Credo che tutto inizi proprio da qui, dalla ricerca di un contatto amichevole con la natura, dal desiderio di avvicinarla in modo intimo, cosciente, lontano dalle manifestazioni della sua grandiosità, che pure conosco assai bene. Incoraggio il desiderio di consapevolezza, di pacifica unione, perseguo il piacere di studiare i particolari e anche, per non sentirmi troppo esposto alla sua forza gigantesca, assecondo la voglia di star dentro a piccoli luoghi sicuri. Ma non dimentico mai che il piccolo fa parte del grande, che la sterminata estensione del cosmo prosegue senza alcuna discontinuità nell'universo infinitesimo nascosto in fondo alla materia, laggiù, fino alla danza misteriosa delle sue particelle elementari.

Pubblicato sulla rivista Asferico, quadrimestrale dell'AFNI, Associazione Fotografi Naturalisti Italiani, febbraio 2019.

La rivista ASFERICO.