IL PAESAGGIO METAFISICO
Isole Lofoten, Norvegia. Canon EOS 5D, ob. Canon 70-200mm f2.8.
11 agosto 2007, 17.46.59, ISO 200, lunghezza focale 200mm, priorità dei diaframmi, AV f9,0, TV 1/400, misurazione media ponderata, compensazione -1/3, one shot AF.
Post-produzione con Photoshop CS3.
Mi capita a volte, osservando certe fotografie, di cogliere un’atmosfera che, d’istinto, definirei “metafisica”, così, senza saper bene perché. Mi accade soprattutto con i paesaggi urbani, ma anche il paesaggio naturale mi rimanda spesso un’impressione che sento inequivocabilmente “metafisica”. E’ una cosa che apprezzo molto e da cui sono affascinato ma, riflettendoci sopra, mi sento anche subito consapevole che questa definizione istintiva nasce seguendo percorsi intellettuali poco chiari, non ben definiti. Conscio della mia ignoranza, ho deciso d’indagare un po’ e, per prima cosa, ho cercato una definizione della parola “metafisico”, in senso stretto, scoprendo che la mera etimologia, connotando solo qualcosa che supera, che “va oltre” i fenomeni fisici, non soddisfaceva molto le mie curiosità. Era necessario infatti, per cominciare a sciogliere i miei dubbi, collocare il termine nell’ambito in cui dal metafisico si origina la Metafisica, branca della filosofia che studia, cito da Wikipedia, “i limiti e le possibilità di un sapere che non può derivare in modo diretto dall'esperienza sensibile. I cinque sensi, infatti, si limitano a recepire passivamente le impressioni derivanti dai fenomeni naturali, e non sono in grado di fornire una legge in grado di descriverli, non sono in grado cioè di coglierne l'essenza.
Oggetto della metafisica, in questo senso, è il tentativo di trovare e formulare la struttura universale e oggettiva che si ipotizza essere nascosta dietro l'apparenza dei fenomeni. In questo senso, sorge l'interrogativo se una tale struttura, ammessa come ipotesi, si celi nell'ente in quanto tale, o piuttosto nella nostra coscienza, sotto forma di idee innate che determinano il nostro modo di pensare e di conseguenza il nostro modo di conoscere e la realtà stessa, che conosciamo.”
Una faccenda complicata… forse, cercando di semplificare, la filosofia Metafisica, fin dai tempi di Aristotele, cerca di sciogliere il mistero che sembra celarsi dietro all’apparenza fisica del mondo e di cui abbiamo solo una vaga percezione “interiore”? Già, ma come collegare tutto questo all’impressione che si prova di fronte a certi tipi di immagine fotografica? Ho capito quasi subito che dovevo staccarmi dalla filosofia e spostarmi in territori più vicini, in qualche modo contigui alla fotografia, andando a cercare tra le arti figurative e, in particolare, nella pittura, di cui è ben nota l’esistenza di una corrente, nata circa un secolo fa, definita proprio “metafisica”.
Torno così a Wikipedia e scopro che la genesi della pittura metafisica è individuabile nel quadro di Giorgio de Chirico "L'enigma di un pomeriggio d'autunno", citato dal pittore stesso in un suo manoscritto parigino del 1912:
« ..., dirò ora come ho avuto la rivelazione di un quadro che ho esposto quest'anno al Salon d'Automne e che ha per titolo: L'enigma di un pomeriggio d'autunno. Durante un chiaro pomeriggio d'autunno ero seduto su una panca in mezzo a Piazza Santa Croce a Firenze. Non era certo la prima volta che vedevo questa piazza. Ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di sensibilità quasi morbosa. La natura intera, fino al marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. In mezzo alla piazza si leva una statua che rappresenta Dante avvolto in un lungo mantello, che stringe la sua opera contro il suo corpo e inclina verso terra la testa pensosa coronata d'alloro. La statua è in marmo bianco, ma il tempo gli ha dato una tinta grigia, molto piacevole a vedersi.. Il sole autunnale, tiepido e senza amore illuminava la statua e la facciata del tempio. Ebbi allora la strana impressione di vedere tutte quelle cose per la prima volta. E la composizione del quadro apparve al mio spirito… »
Molto affascinante, anche se, da medico, tendo a pensare che le condizioni di salute di de Chirico abbiano giocato un ruolo importante nel condizionare le sue percezioni. Insomma, chissà se le sue magnifiche tele sarebbero state ugualmente così metafisiche se l’artista, quel giorno, fosse stato meno disidratato e ipoteso! Ma questa è solo una battuta, tanto per divagare un po’ e allentare la tensione lungo un percorso così complesso.
Infatti quello che poi conta è che i caratteri fondamentali della pittura Metafisica sono:
Rappresentazione di immagini che conferiscono un senso di mistero, di allucinazione e di sogno.
La prospettiva del quadro è costruita secondo molteplici punti di fuga incongruenti tra loro (l'occhio è costretto a ricercare l'ordine di disposizione delle immagini).
Assenza di personaggi umani quindi solitudine: vengono rappresentati manichini, statue, ombre e personaggi mitologici.
Campiture di colore piatte e uniformi.
Tutti questi elementi distintivi si possono facilmente riportare anche in fotografia, dunque il cerchio sembrerebbe chiudersi, se non fosse che le mie impressioni di metafisicità si producono anche di fronte a immagini di paesaggio naturale, dove certo non compaiono portici o architetture, né tantomeno statue, manichini o lontani treni a vapore. Dunque cosa le genera? Può esistere in fotografia un paesaggio naturale dalle caratteristiche metafisiche?
Io credo di sì, e penso soprattutto a certi paesaggi costieri, in cui la piattezza della superficie marina conferisce all’immagine quella particolare fissità, quell’atmosfera sospesa, di attesa enigmatica, molto molto metafisica. Ma certo non solo il mare si adatta a questo concetto, penso infatti alla sabbia e alla neve che ugualmente, con le loro superfici omogenee, creano sensazioni di immutabilità inesplicabile. Insomma, dopo tutto questo percorso non ho dubbi che, nonostante la lontananza apparente dalle tematiche della pittura di riferimento, anche la fotografia del paesaggio naturale possa essere condotta dalle scelte del fotografo a suscitare nell’osservatore impressioni potentemente metafisiche. Perché, come concludeva Giorgio de Chirico, «… ogni volta che guardo questo quadro rivivo quel momento. Momento che tuttavia è un enigma per me, perché è inesplicabile. Perciò mi piace chiamare enigma anche l'opera che ne deriva.»
Metafisici saluti.
Mar Rosso, Egitto, maggio 1996. Canon EOS 3, ob. Canon 70-200mm f2.8. Fuji Velvia 50. Scanner Nikon Coolscan 5ED. Postproduzione con Photoshop CS3.
Dopo la comparsa del mio piccolo scritto qui sopra, Costanza, che annovero tra i più assidui e sensibili frequentatori del mio sito, ha inviato questo interessantissimo commento, che volentieri pubblico qui, come straordinario spunto di riflessione per tutti.
“E’ come se la terra volesse proprio ciò che lo spirito sogna”.
Il tema, implicante ciò che va al di là del sensibile, mi interessa già nella sua enunciazione.
Nei giorni di neve di dicembre, fatti apposta, mi pare, per pensare al suo spunto - e cosi per me è stato -dalla mia finestra ho guardato il manto bianco, coltre che cela, nella ricurvità, nel farsi dentro, una concavità maternoamorosa dove la mente scorre tra enigma e mistero.
Preferisco mistero perché è più che enigma e perché enigma pare non concedere la soluzione o concederla solo molto difficilmente; mistero invece ha in sé il senso già grato, generoso della occasione salvifica, della salutare rivelazione.
Natura: cifra rivelativa dell’universo. Sotto l’ “oscurità” di alcune forme -neve sabbia acqua - è, paradossalmente, portato più alla luce, il mistero. Perché sono, queste tutte, forme che, in qualche modo, ci allarmano, ci rendono titubante il passo: paura, soglia tra purezza e contaminazione; si crea in noi una sospensione, una sorta di epoché della mente, un suo minimo letargo…
Siamo avvinti da immagini poetiche: paesaggio come crosta difesa argine all’oltre, atmosfera come zona di filtro che protegge dalla profondità d’abisso della luce accecante del reale.
Temi: la solitudine, resa necessaria dalla vertiginosa prossimità all’Essere; la risalita continua all’Origine, adombrata dal tema del come la prima volta, della percezione primigenia: strana percezione, rinnovata, ogni volta che guardo, dal rivivere quel momento…
Un’occasione preziosa.
Fin dall’inizio sono stata colpita da questo paesaggio -la foto è molto bella, colma di una purità, di una pacatezza - e dallo spunto di riflessione.
La distesa di neve, nel silenzio del mio paesaggio interiore, ma anche fuori, mi ha spinto a pensarci su e a risponderle perché questo tema lo coltivo da tanto e il paesaggio metafisico, con una sua particolarità, o meglio una sua eccezione, è da tempo nell’orbita del mio interesse di lettura: si tratta di un aspetto di paesaggio, fratello sì di quello metafisico, ma con il quale, pur sfiorandolo, non si identifica semplicemente, essendone l’oltre dell’oltre.
Tanto più contenta, dunque, di questa suggestione e sorpresa, ancora una volta, della non ricercata congruenza di interessi reciproci. Cioè, inaspettatamente, mi sento da lei portata sul terreno su cui volentieri l’avrei portata io e, sebbene non con lo stesso fine (l’implicazione fotografica, la possibilità di darsi della foto in tal contesto), possiamo incontrarci a parlare del paesaggio come cifra rivelativa della realtà nel suo oggettivo porsi, e pure nell’aspetto che riguarda lo stesso soggetto percipiente.
La metafisica, lei dice, cerca di sciogliere il mistero che si cela dietro le apparenze (dietro ogni apparenza) e di cui noi abbiamo “solo una vaga percezione interiore”. Sì è vero, lo pone, lo indica, lo addita e aiuta a svelarlo. Si fa araldo della verità e mi colpisce, da sempre, che in greco verità, alétheia, - da noi recepita per la più semplice via latina - è “togliere il velo, svelare”.
Però aggiungerei che noi abbiamo, potenzialmente, molto più che una vaga percezione interiore: il mistero è forte: “Guarda. Guarda bene. Ancora”, dice il Poeta: se solo vogliamo, le cose luccicano dell’oltre, rifulgono, ne grondano, ne sono impregnate.
Questione di sguardo, di sosta. Di permanenza, di attesa… lo sa bene anche lei.
Come collegare il senso profondo della metafisica all’immagine? - si chiede. Perché questo problema esiste, sì, se hai un concetto di filosofia, ossia un approccio ad essa astratto, artificiale, didattico. Sennò, credo, tutto è più naturale e puoi trascorrere in estrema libertà dal tuo pensiero (che poi si sostanzia in sguardo, apprensione visiva, emozione) alla realtà esterna così come è configurata. Non le pare?
Credo sia importante evitare quel ragionamento dicotomico, a cui del resto - il suo dubbio lo dimostra - potrebbe condurre il tema arduo da lei proposto, provocando ciò “che isola da una parte pensiero e dall’altra immagine”.
Invece ponendosi allo studio con cura e passione, senza precomprensioni arbitrarie, “si supera il dilemma che porta a vedere come il nesso tra immagine e concetti è più scoperto ed evidente” e abbatte il pregiudizio secondo cui gli autori del pensiero hanno sempre ritenuto ostica l’immagine accettando così Aristotele, sì sempre lui! (De anima iii, 7, 41 a-b): “l’anima non pensa mai senza immagine” nel senso che non esiste forma di pensiero che non si rapporti all’immagine.
Dell’idea 44. De metafisica, prima di tutto qualche osservazione generale.
Aristotele lo diceva bene nella Poetica, “è la trasparenza che conta” (in frasi che siano come un brusio d’api, come un’acqua chiara).
Mi alletta la suggestione, ancora una volta lo ripeto, cui mi volge la sua idea. In più, mi corrisponde. Parto dal suo testo: così bello il suo percorso, il ragionare coerente e organizzato, circolare, vasto…
Dal dato di partenza, quello etimologico, lei si stacca presto, non trovando richiami col suo tema. Se vogliamo ha però ragione di non essere soddisfatto.
L’etimologia di metafisica non è veramente funzionale al nostro discorso, è puramente occasionale, quasi banale. Viene fuori da una semplice catalogazione di biblioteca, fatta da un certo signore di Rodi: i libri aristotelici sull’essere messi dopo quelli sulla fisica… il titolo passa da posizione nella raccolta a contenuto.
Su questo vediamo poi, curiosamente, come il legame cronologico (tà physikà- metà tà physikà) giochi su dei rimandi di precedenze, sempre in tema del paesaggio voglio dire. Mi sembra che lo accenni dopo, a proposito di Talete…
A noi interessa però l’accezione di ‘metafisico’ che è venuta imponendosi e che da Aristotele in poi orienta all’oltre, al dopo il dato sensibile.
Un oltre, un dopo che possono assumere tutte le sfumature, ma anche la nettezza, l’unicità, la selfoneness di colore che diamo alla visione della realtà, dell’Essere e inoltre alla credibilità e al peso della conoscenza sensoriale.
Metafisica, dunque, come pensiero che riguarda l’ente in quanto ente e la sua trascendenza nella natura. Quindi come disciplina filosofica che ha per oggetto il campo vasto e indeterminato che rimane al di là dei limiti dell’esperienza, intendendo questi limiti non come quelli tracciati dalla limitatezza spaziotemporale dell’uomo ma quelli oltre i quali non è più possibile alcuna forma di esperienza sensibile, perché superandoli si esce dalla sfera, si oltrepassa l’ambito del sensibile stesso per accedere a una realtà che, se pure esiste ed è conoscibile, può essere oggetto solo della conoscenza intellettiva, sia questa puramente razionale o intuitiva.
Non sono in grado di argomentare filosoficamente e mi limito ad alcune considerazioni partendo dal convincimento personale che la metafisica è cifra ineliminabile. C’è una diatriba, credo tuttora aperta - la metafisica è morta? Non serve più? - nel dibattere filosofico in cui l’appiattimento del pensiero scientista positivista resta intrappolato in un atomismo senza via d’uscita, che ha abbattuto, strappato, e poi? Non vado oltre…
E’ urgente mostrare, “how science is atomic, scopeless without metaphysics. This alone gives meaning to laws and sequences and causes and developments”. “E’ necessario porre una metafisica che operi come barriera all’appiattimento sia dei valori morali, sia di ogni aspirazione a una conoscenza superiore”: la metafisica è insopprimibile perché insopprimibile è il suo problema fondamentale, sorgente spontaneo dalla stessa struttura dello spirito umano.
“Nasce solo per l’uomo il bisogno metafisico […] assai presto, insieme con quella prima riflessione si presenta già quella meraviglia che dovrà divenire madre della metafisica: l’uomo è, pertanto, animal metaphysicum perché, senza dubbio, è la consapevolezza della morte e, accanto a questa la considerazione del dolore e della miseria della vita, ciò che dà la più forte spinta alla riflessione filosofica e alla considerazione metafisica del mondo. Se la nostra vita fosse senza termine e senza dolore a nessuno verrebbe in mente di chiedere perché il mondo esista ed abbia proprio questa costituzione…” (Schopenhauer).
Dell’averla esautorata - la metafisica, appunto - risentiamo abbastanza nel vilipendio estetico, in cui siamo tuttavia drammaticamente immersi - intendo estetica nel senso alto del termine, come categoria che percepisce e difende l’ordine morale della Realtà, locus cosmologico e cosmogonico del Bene Bello Vero e dunque categoria trascendentale.
Certo non esiste una soluzione univoca di metafisica. Di qui, tante le metafisiche quante le persone che si pongono almeno il problema. Ma, pur concedendo questo, come non ritenere allora che, sì certo, la metafisica, fondamento ontologico, è categoria di riferimento imprescindibile, basilare e informa di sé l’Essere? Ci porta all’Essere, concorre all’unificazione del molteplice, intendendo quest’ultimo nella sua potenziale, anche se non esclusiva, accezione disgregante di caos e disordine, opposti al kosmos sopra detto.
Giungiamo, adesso, al paesaggio.
Selezionando immagini poetiche per dare titolo ai capitoletti ho scoperto che un testo di Bonnefoy che leggevo in quei giorni per via della neve era tutto pura metafisica di paesaggio.
Se non che, è vero, il mondo ha solo immagini simili ai fiori che bucano la neve di marzo, e poi si schiudono, rigogliosi. (Sauf, c’est vrai, que le monde n’a d’images que semblables aux fleurs qui trouent la neige en mars, puis se répandent… Sur des branches chargées de neige.)
Mi è sembrato che in questi versi, tratti da quel libretto che è tutto luce-terra trasfigurata, davvero tralucesse il vero senso del paesaggio metafisico, come qualcosa che “si lascia” debordare da un limite lieve, gentile, incapace o nolente a contenerlo, creandosi, così, in un rimando reciproco di assoluta, morbida, osmotica contiguità, un paradosso assolutamente logico, di bellezza che spigola il cuore di un’altra, diversa bellezza (neve/fiori).
Inserito nella natura - di cui è emblema e paradigma, sempre vicino se ricercato, se perseguito - vi è, dunque, il paesaggio.
Quante idee diverse di paesaggio! Penso, tra i suoi, alla valle di Ngorongoro, all’Islanda, alla Namibia; a Symi e Monfrague, alla val di Merse; le bellissime coste, i nostri boschi, i cieli scozzesi (e gallesi!), a quella lama di luce del tramonto in un bosco come tanti… eppure tutti sono “insufficienti”, patiscono trascendenza, postulano un oltre… li leggo metafisici in questo senso.
Inoltre, tanto più metafisici quanto più determinato (pitched) è il modo di guardarli da parte dell’occhio percipiente: perché o il paesaggio ci risulta tale (at pitch) rispetto a te che lo guardi, e più o meno lo fai penetrare in te, e ti rifletti in esso, ti lasci modificare oppure questa connotazione metafisica non si dà.
Tutto ciò si configura come vera e propria esperienza e il desiderio di tale esperienza viene espresso in forma di tensione o energia verso l’oggetto.
Ciò che mi impressiona fortemente è che nella visione, del paesaggio nel nostro caso, c’è un nesso tra contemplazione di una forma sensibile e apprensione di una energia che la sostiene. Un’energia di vita che accomuna i due soggetti in una medesima condizione ontologica, consentendo “nel momento di sospensione estatica (sì perché un uscir fuori è implicato), il loro dialogo e persino uno scambio di identità”.
Quanto più nasce fra i due soggetti, e non dico tra soggetto e oggetto, la confidenza, l’amicizia, la sim-patia, attitudine che la natura ha in sommo grado per l’uomo e l’uomo un po’ meno per lei, tanto più metafisico il paesaggio, come anche, penso, tanto più metafisico quanto più puro è lo sguardo di chi sta di fronte. Di chi, più a lungo possibile, riesce a mantenere la distinzione del particolare, “del rotolare dei granelli di sabbia”; l’umanità ha bisogno dello spirito penetrante dell’osservazione, deve affinare l’arte dello sguardo per farsi profetica…
Trovo un bel testo, di un mistico siriaco, forse anacoreta, Isacco il siro, certo molto addentro nel mistero della natura. Glielo passo. “Cos’è la purezza? È un cuore pieno di compassione per tutta la natura creata. E cos’è un cuore compassionevole? Risposta: è un cuore che arde per tutta la creazione, per gli uomini e gli uccelli, per gli animali della terra, per i demoni, per ogni creatura… quando l’uomo pensa ad essi, quando li vede, i suoi occhi versano lacrime, così forte e così violenta è la sua compassione che il suo cuore si spezza… per questo egli prega fra le lacrime senza interruzione anche per i serpenti, nell’immensa compassione…”
Gli aspetti urbani e stranianti, anche da lei richiamati, della pittura metafisica, che qui esulano, forse sono lontani solo in apparenza: in realtà tanto più funzionano quanto più –dolorosamente - richiamano (nost-algia) con peculiare atto percettivo (cfr. lo sguardo “convalescente” di De Chirico: evidentemente funziona!) ciò che hanno allontanato: di qui (si è prodotto) l’uomo isolato atomizzato spezzettato (incompiuto!) - in contesti urbani, ma non solo. Che ha tagliato la dimensione trascendente, quindi ha perso capacità di lettura, acume di sguardo, la solidarietà arte-téchne di osservazione. In ultimo, e di conseguenza, ha perso la capacità sua precipua: quella di nominare, decifrare le cose di natura, né quindi sa dare più un nome agli enti e all’Essere.
Un uomo a-metafisico, non è neanche più un physikòs, non sa indagare la natura, è dunque solo tra manichini, locomotive o suoi altri muti e inservibili idoli-giocattoli, ultimamente a lui estranei…
Un’alba, come quella della Porta d’oriente, una levata del sole al Corno alle Scale, un tramonto (tramonto?) come quello davanti agli alberi faretra che cosa dicono di “oltre” a quest’uomo urbano?
Non è stato dunque donato all’uomo il paesaggio metafisico per risvegliare in lui la curiosità dell’oltre, consegnargli l’apparente semplicità dell’enigma, introdurlo al mistero?
Appunto, c’è la possibilità di percepire l’enigma (o mistero) e di poter trovare, anche nel (proprio nel) paesaggio metafisico, la chiave di quel thauma-stupore- meraviglia (smarrito, oggi: proprio questo mi pare il problema) di assaporare le cose vedendole come se fosse la prima volta.
Se volessimo cercare tenacemente, e di nuovo, la freschezza che sta al fondo delle cose?